La Boîte en Valise, Marcel Duchamp
La Boîte en Valise, Marcel Duchamp
Arte, Cultura & Spettacoli

Duchamp: ''L'arte è come l'elettricità''

Alla Fondazione Antonio Dalle Nogare mostra a cura di Eva Brioschi

(Bolzano, Corona Perer 13 aprie 2024) - Marcel Duchamp paragonava l’arte all’elettricità: «Non si può dire che cos’è, ma si sa cosa fa. Con l’arte è la stessa cosa: si sa cosa fa, ma non si sa che cos’è» disse in una intervista alla  BBC del 1959.

La Fondazione Antonio Dalle Nogare rende omaggio al genio dell'artista che agì come un incantesimo per i suoi contemporanei perchè c'è stato un prima Duchamp e un dopo Duchamp.

Riallestendo la propria collezione e partento proprio dall'artista, la curatrice Eva Brioschi ha scelto un titolo che fa riferimento proprio all'influenza esercitata da Marcel Duchamp spesso definita come una sorta di incantesimo (spell), sotto il quale, molti degli artisti del secolo scorso, hanno realizzato le proprie opere. Yoko Ono disse: "Drink an orange juice laced with sunshine and spring and you’ll see Duchamp''. ''Under the Spell of Duchamp'' si ispira iconicamente al colore di quel drink.

''Siamo partiti proprio dalle parole di Yoko Ono per determinare il colore con cui è stata dipinta la sala dove è esposta l’opera di Duchamp, sotto il cui incantesimo la mostra respira. Utilizzando uno strumento digitale per la miscela di colori, abbiamo semplicemente proceduto a mescolare 1 rosso + 1 giallo (aranciata), aggiunto ancora 1 giallo (il raggio di sole), e infine 1 verde (la primavera), e abbiamo ottenuto un colore che si chiama Buddha Gold. Una coincidenza che sa...di karma'' spiega alla press-preview Eva Brioschi. ''Il giallo è il colore del Sole, energia vitale, ma anche quello dello zolfo, messaggero di forze ctonie. Eros e Thanatos. L’Eros è una potenza creatrice, che agisce attraverso l’unione degli elementi femminile e maschile. Tutta l’arte di Duchamp sembra attraversata da questo desiderio di completezza, da questo tentativo di ritrovare una condizione di ancestrale e perduta unità''.

La mostra che accosta a Duchamp gli artisti ''figli'' di quell'incantesimo, ha il proprio (e potente) fulcro in una delle opere iconiche del maestro francese: La Boîte en Valise una sorta di misteriosa ''casa portatile'': un museo in una scatola, un corpo di lavori, concepita durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale e assemblata in diverse serie lungo i decenni successivi per un totale di 300 esemplari.

''L’arte concettuale è nata con Marcel Duchamp - spiega Eva Brioschi - e questa valigia è stata definita un’autobiografia per immagini. La Boîte en Valise germoglia come idea nel 1935, e si concretizza alla fine degli anni ‘30. La seconda guerra mondiale è iniziata e Duchamp vorrebbe tornare negli Stati Uniti, come molti intellettuali in fuga dai regimi nazifascisti e dalle persecuzioni razziali''.

 

Fondazione Dalle Nogare ha acquisito la valigia/scatola, all’interno del quale Duchamp aveva inserito 69 miniature e riproduzioni di sue opere. Gli serviva per tenere la propria vita “a portata di mano”, per poter viaggiare leggeri con tutto il necessario, e per potersi sentire a casa, in ogni parte del mondo. C'è anche il famoso e iconico orinatoio in miniatura.

Le pareti circostanti sono occupate da altri importanti artisti del XX secolo, la cui poetica può essere messa in relazione con alcune delle più sovversive pratiche duchampiane.

Il ready-made (l’oggetto di uso comune traslato all’interno dello spazio espositivo e elevato al rango di opera d’arte) viene elaborato ora in pattern ora in manufatti con intento critico nei confronti della società americana, attraverso l’assemblaggio di oggetti di natura industriale. Idea e processo diventano così più importanti dell'oggetto in sè che prende forma, o semplicemente "appare" come nelle arti visuali.

Oppure l'oggetto comune approda in chiave surrealista ad alto da sè, come in Christo che comincia celando piccoli oggetti per finire alle monumentali impachettature in tal modo mettendo in evidenza ciò che era stato ri-velato e nascosto.
Fondazione Dalle Nogare ha in collezione una magnifica opera di questa straordinaria pagina di storia dell'arte contemporanea.

Duchamp è stato dunque il preconizzatore dell'arte concettuale ante litteram, poiché il suo desiderio di liberare l'artista dal giogo della produzione di opere – create col solo intento di appagare la "visione retinica" – e il suo desiderio di desacralizzare il gesto artistico inteso come furore creativo, hanno provocato negli artisti delle generazioni successive riflessioni sull'essenza stessa del fare arte che per Marcel Duchamp era l’ultrasottile, l'ìinafferrabile. "Qualcosa che non si può descrivere, ma di cui si può fare esperienza'' spiega Eva Brioschi alla quale va il merito di aver costruito attorno a queste opere un discorso che ci apre alla complessità e alla bellezza del Pensiero.

(c.perer)


Fondazione Antonio Dalle Nogare
Under the Spell of Duchamp

a cura di Eva Brioschi
13.04.2024 - 28.12.2025

Fondazione Antonio Dalle Nogare
Rafensteiner Weg 19, Bolzano, Italia
www.fondazioneantoniodallenogare.com

 

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DUCHAMP e LA SOLITUDINE DI CHI CREA
(Estratto dal testo critico di Eva Brioschi)

''....Tutta l’arte di Duchamp sembra attraversata da
un desiderio di completezza,  tentativo di ritrovare una condizione
di ancestrale e perduta unità. Questo anelito è stato da lui perseguito senza
alcuna pretesa di serietà, ma con grande ironia. Il suo modo di stare al mondo è
stato leggero, ma intenso; fermamente intenzionato a non prendere niente sul
serio, meno che mai la professione di artista, evitando di ripetere se stesso
attraverso formule di successo, come la pittura cubista o i ready-made, che gli
avrebbero garantito fama e guadagni. Il suo impegno costante andò invece alla
creazione di un unico capolavoro: trasformare la propria esistenza in un’opera
d’arte.

La sua vita trascorse come una partita a scacchi – il gioco che diventò la
sua principale occupazione per un lungo periodo, e in cui eccelse a livello
agonistico –, con lunghi momenti di vuoto e silenzio, con gesti che sapeva
avrebbero condotto solo con il tempo ai risultati previsti. Il suo pubblico non
era quello delle poche mostre a cui partecipò, o degli accorti collezionisti che lo
sostennero in vita. La sua audience era la posterità. La distanza di tempo e spazio
erano elementi necessari alle sue opere per diventare pienamente se stesse. La
sua ultima monumentale installazione, Etant donné, è in effetti come un diorama,
un paesaggio interiore a cui si accede guardando da un piccolo foro, come se
l’artista ci lasciasse spiare dentro la sua mente; così personale e intima che
Duchamp ha accordato alla posterità di avervi accesso, soltanto dopo la sua
morte.

Nel 1961 Duchamp disse (Where do we go from here, simposio presso il
Philadelphia College Museum of Art, marzo 1961) che un giorno gli artisti
sarebbero riusciti come Alice a entrare nel mondo delle meraviglie,
attraversando lo specchio della retina per raggiungere un’espressione più
profonda. Quello che si augurava o prefigurava non era altro che una visione
mentale, liberata dal senso estetico, dal piacere del bello e dal disgusto per il
brutto. «Per quanto possibile non cerco mai di giudicare o criticare nulla» (C.
Tomkins, 1964); eppure aveva stabilito presto cosa non gli piaceva: «Non mi
piaceva la commistione tra denaro e arte. Mi piacciono le cose pure».

Quando gli fu chiesto (D. De Rougemont, 1968) perché aveva smesso di dipingere, egli
aveva risposto: «Ecco cosa fa un pittore…Guardi come producono. Crede che a
loro piaccia… dipingere cinquanta volte la stessa cosa? Per niente, non fanno
neanche quadri, fanno degli assegni». «Se avessi più soldi dovrei passare il
tempo a occuparmene, e non è il modo in cui voglio vivere». «Si possono fare
opere che non siano ‘arte?’» si era domandato in un appunto nel 1913.

Aveva parlato di un’attitudine prossima all’anestesia – anarte –, a una mancanza di
sensazione. «Ridurre, ridurre, ridurre era la mia ossessione – ma al tempo stesso
il mio scopo era di volgermi all’interno, piuttosto che all’esterno». «Tutti gli
artisti dovrebbero essere ricoverati per ipertrofia dell’ego…Perché l’ego degli
artisti dovrebbe essere autorizzato a inquinare l’atmosfera?». «Che cosa sono?
...un uomo, semplicemente, un respiratore» (M. Sanouillet, 1954).

Questa ricerca di essenzialità, di ascetismo, di ritorno a una «forma più asciutta»,
non si risolve però in un freddo strutturalismo o nell’aderenza ad alcun dogmatismo
– «i miei metodi cambiano continuamente».
Non c’è una ricetta, una scuola, un credo a
cui votarsi, ma c’è una direzione che è interiore: «Questa è la direzione in cui
l’arte dovrebbe andare: verso un’espressione intellettuale, piuttosto che
un’espressione animale. L’epressione ‘bête comme un peintre’ mi ha stufato»
(Sweeney, 1958).

«L’arte è un miraggio. Un miraggio proprio come nel deserto,
l’oasi che appare…Ma nel campo dell’arte non si muore mai di sete. Il miraggio
è solido.» (O. Hahn, 1964). «Il mio capitale è il tempo non il denaro.» (W.
Sargeant, 1952). «La sua opera migliore è l’utilizzo che fa del tempo» (H. P.
Roché, 1959).

L’arte concettuale è nata con Marcel Duchamp e questa mostra è nata intorno a
lui, a una sua opera che è stata definita un’autobiografia per immagini. La Boîte
en Valise de ou par Marcel Duchamp ou Rrose Sélavy germoglia come idea nel 1935,
e si concretizza alla fine degli anni ‘30. La seconda guerra mondiale è iniziata e
Duchamp vorrebbe tornare negli Stati Uniti, come molti intellettuali in fuga dai
regimi nazifascisti e dalle persecuzioni razziali. L’idea era quella di avere una
summa portatile di quanto realizzato fino a quel momento, un museo personale
e immaginario, in seguito definita «macchina di acculturazione», «il museo
come ready-made».

A firmarla è l’artista insieme al suo alter ego, la Rrose Sélavy
nata nel 1920, come una personificazione di quell’individuo (in-dividuus) che
Marcel non è, ma forse in qualche modo si sente: uno sfavorito, che è passato
attraverso traumi e fallimenti personali e professionali. Essa rappresenta il
desiderio di unire maschile e femminile in un’unica entità - riconciliazione degli
opposti - ma anche il simbolo della sua distanza dall’antifemminismo e
antisemitismo diffusi all’epoca. Nel Grand Verre l’unione dello Scapolo e della
Sposa risulta frustrata da una scissione inammendabile. Il desiderio resta
sospeso nella trasparenza di quest’opera, tramite cui ciascuno di noi può
osservare, come attraverso un filtro e uno specchio, i propri sentimenti di
incompletezza e il proprio cammino sisifico; ma come scriveva Camus «bisogna
immaginare Sisifo felice», perché questa ricerca diventa un fine: avere dei
desideri è sufficiente per dare un senso al nostro vivere..."

Eva Brioschi, curator

 

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