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''La strada per Be'er Sheva''

Tradotto in Italia da Alcatraz il capolavoro di Ethel Mannin

di Corona Perer - C'è un libro della Bibbia che racconta l'Esodo degli Ebrei, è il libro di Giosuè dove Dio dice «Vi diedi una terra che non avevate lavorato, abitate in città che non avete costruito e mangiate i frutti di vigne e oliveti che non avete piantato» (Giosuè 24,13)

E c'è un libro, un autentico capolavoro, che narra l'altro Esodo: quello dei Palestinesi. Dalle terre che avevano lavorato, dalle città che avevano costrutio e dove mangiavano i frutti di vigne e olveti che avevano piantato e curato per secoli.

A differenza del primo questo esodo è forzato, non voluto: i palestinesi non hanno scelto di partire, hanno dovuto farlo. Lo racconta il libro  ''La strada per Be'er Sheva'' scritto da Ethel Mannin, nata a Londra nel 1900, autrice di più di cento opere tra romanzi, racconti, autobiografie, saggi e diari di viaggio.

Pubblicato nel 1963, a maggio di quest'anno è finalmente uscita la traduzione italiana (a cura di Stefania Renzetti). Una operazione edioriale di Agenzia Alcatraz alla quale si deve il merito di aver dato cittadinanza - anche in Italia - a questa struggente testimonianza del dolore che i Palestinesi si portano dentro dal 1948, anno della Nabka.

Il valore di questo libro, finalmente tradotto nella lingua italiana, è di aprirci gli occhi. Di tirare un pugno nello stomaco, che però è necessario. E' un libro che viene dal coraggio di chi sente il dovere di dire.

L'autrice che ha esordito a soli 23 anni, sin da giovane si fa  notare per il suo impegno politico: da attivista vicina a idee anarchiche e socialiste e fortemente anti-monarchiche (in un paese come quello gvernato dai Windsor) approda a posizioni coraggiose femmniste e antifasciste in un climax che si prepara alla prima guerra mondiale.
 

 

I meravigliosi occhi di Ethel Mannin si sono chiusi per sempre nel dicembre del 1984. Ma fino all'ultimo restò vigile, critica e combattiva. Non ha visto quel che sta accadendo oggi e chissà cosa direbbe. Il popolo non è ancora tornato, anzi, gli ultimi resti si apprestano ad essere nuovamente rimossi quando non vengono colpiti e trucidati.

Mannin racconta la loro prima grande tragedia, la Nabka, senza mai cedere a pietismo e melodramma, dando occhi e voce ai palestinesi attraverso la storia di una famiglia che le fu narrata in prima persona. Storia vera, dunque. Occorre però capire bene il contesto, ignoto purtroppo (o mal raccontato) ancora oggi, specie in Italia.

Fino al 29 novembre 1947, esisteva un paese chiamato Palestina, un paese a maggioranza araba. Il 29 novembre 1947, la Palestina fu divisa a tavolino dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a Washington. Vi furono pressioni enormi, tanto che lo stesso presidente Truman disse ''...mai era accaduto nella storia americana». L'intera popolazione fu sfollata ed espropriata per fare spazio agli Ebrei. Nessuno degli sfollati nei campi o fuori, ha mai ricevuto un centesimo di risarcimento per le proprie case, terre e capitali finiti in mani israeliane. 

L'espediente letterario viene dalla storia vera della famiglia di Butros Mansour, un proprietario terriero palestinese di fede cristiana, costretto a scappare da Lidda insieme alla moglie di origine inglese e al figlio di 12 anni, Anton. È il 15 luglio 1948 e in Medio Oriente infuria il conflitto arabo-israeliano: quelle che ancor oggi chiamiamo IDF (le truppe delle Forze di Difesa Israeliane) occupano la città palestinese e iniziano a uccidere o espellere la popolazione araba, causando l’esodo di un numero enorme di persone - in larga parte donne, anziani e bambini - costrette a camminare sotto un sole cocente nel deserto sino alla città di Ramallah, in Cisgiordania.

In migliaia muoiono di insolazione, affaticamento e sete. Lungo il cammino, trovato un pozzo che però è troppo profondo, si estrae l'acqua inzuppando cenci strappati dagli abiti: non ci sono recipienti. Così si succhiano gli stracci che salgono in superficie imbevuti di acqua e fango. I bambini piangono, alcuni muoiono. Una madre allatta un bimbo morto. Fatti e circostanze autentiche.

 

Anton Mansour, è il protagonista del racconto (storia vera, ripetiamo) e la sua tremenda esperienza lo segna profondamente. Perde il padre, dovrà trasferirsi in Inghilterra e vivere un secondo esilio. Ma rimane in contatto con un’altra vittima della diaspora palestinese, un profugo musulmano a cui è molto legato, Walid. Riuscire a tornare nella propria terra diventerà quasi una ossessione: Be’er Sheva, è  caduta in mano israeliana nel 1948, e lui da quella strada vorrebbe unirsi alla resistenza. Una strada, che ora si trova nella Terra di Nessuno, e finisce per incarnare il sogno di ogni palestinese: ritornare a casa.

''La strada per Be’er Sheva'' uscito nel 1963 è stato il primo romanzo occidentale a raccontare dal punto di vista palestinese la Nakba, la pulizia etnica operata dalle milizie sioniste nel 1948 e il conseguente esodo. Tradotto anche in lingua araba con grande successo, all’epoca della sua uscita è diventato un piccolo caso, tanto letterario quanto politico.

A sessant’anni dall’uscita è ancora di drammatica attualità, perchè niente è cambiato nelle pratiche violente dell'esercito di occupazione, il popolo palestinese vive la stessa identica tragedia.

Per l'autrice Ethel Mannin, la Palestina e il suo destino sono stati decisivi nella sua vita di scrittrice a anche attivista politica. Romperà nel 1939 con l'Independent Labour Party, dove militava, trovando inaccettabili le posizioni troppo timide verso la tragedia del popolo palestinese se non di aperto sostegno al progetto sionista. ''La strada per Be'er Sheva'' nasce proprio da questa frattura.

C'è tenacia, empatia tra le righe e nei sentimenti descritti da Ethel Mannin. Non ci sono pietismi, c'è realismo. In postfazione Tiffany Vecchietti annota che il romanzo ''...sembra quasi trattenersi continuamente. La sua sincerità è talmente spiazzante, che compie tutto il lavoro. È la resistenza delle pietre scagliate contro chi ti schiaccia la gabbia toracica col carrarmato'' aggiunge.  E tutto questo benchè l'approdo unico possibile sembri essere utopico.

Tutti gli episodi narrati, le persone, le vicende sembrano imboccare una strada senza via di uscita, senza meta, una strada  che non si conclude, in un processo continuamente incompiuto. Uno spazio negato che è diventato anche un grande vuoto editoriale (specie nel mercato italiano e che Alcatraz contribuisce meritevolmente a colmare). Eppure l'autrice, come il popolo palestinese, spera, resiste. Combatte e sogna una Palestina Libera.

"Aggrappiamoci all'utopia. Immaginiamo come sarebbe la Palestina libera. Come sarebbe una vita senza l'occupazione, senza le bombe, senza i coloni, senza il sionismo, senza la paura e senza le macerie. Immaginiamo l'utopia di vita che sconfigge l'estinzione della speranza'' aggiunge Tiffany Vecchietti. E tuttavia cerchiamo di entrare almeno nelle scarpe di un rappresentante di questo popolo piegato e ''piagato''. Anzi, camminiamo come lui a piedi scalzi. Basta leggere questo passo che da incipit alla storia, quando Anton inizia il cammino:

(...)  La terra era fatta di sabbia, troppo calda per essere calpestata a piedi nudi; era fatta di sabbia, pietre, massi grigi e ciuffi di spine sbiancate. Era una terra ondulata, che si estendeva verso le colline, le quali, piega dopo piega, svanivano in un cielo che il caldo aveva prosciugato di ogni colore. Il paesaggio era vasto, si estendeva all'infinito in ogni direzione; l'immenso de-serto giordano brulicava di persone, per lo più donne e bambi-ni, come un esercito sparpagliato che inciampava sulle pietre, cercava un passaggio tra i massi, arrancava sulle collinette sab-biose, madido di sudore, inciampando, cadendo, rialzandosi e inciampando ancora, donne che stringevano neonati, tra-scinando anziani, e gli anziani che collassavano, incapaci di rialzarsi. Ma l'incessante ondata di persone, spinta dalla pau-ra, avanzava affannosamente sotto la luce accecante del sole, mettendo un piede davanti all'altro tra le pietre perché non farlo significava morire di insolazione sete o sfinimento''.

La tragedia palestinese prosegue da quel disgraziato 1948.
E tutti ci chiediamo chi vi porrà mai fine?

Corona Perer
6 luglio 2025

 

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ETHEL MANNIN
LA STRADA PER BE’ER SHIVA

Traduzione di Stefania Renzetti
Postfazione di Tiffany Vecchietti
Agenzia Alcatraz

Pagine 398, 19 euro

 

 


Autore: Corona Perer

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