
Gianni Berengo Gardin, l'occhio come mestiere
Un maestro del bianco e nero (a Napoli fino al 9 luglio 2023)
In quasi settant’anni di carriera Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, 1930) ha raccontato con le sue immagini l’Italia dal dopoguerra a oggi, costruendo un patrimonio visivo unico.
La personale ''Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere'' dopo essere stata allestita al MAXXI di Roma, è volata a Napoli, a Villa Pignatelli, Casa della fotografia dove è stata inaugurata il 6 aprile e rest a allestita fino al 9 luglio 2023. L'esposizione è a cura di Margherita Guccione, Alessandra Mauro e Marta Ragozzino, promossa dalla Direzione regionale Musei Campania e prodotta dal MAXXI, in collaborazione con Contrasto, Fondazione Forma per la Fotografia e Archivio Gianni Berengo Gardin.
Oltre200 fotografie tra immagini celebri, altre poco note o completamente inedite che narrano l'uomo e il suo spazio sociale secondo l'occhio di un maestro della fotografia, maestro del bianco e nero, della fotografia di reportage e di indagine sociale.
La mostra a cura di Margherita Guccione e Alessandra Mauro si snoda lungo un percorso di oltre 200 fotografie, tra le più celebri, le meno conosciute, fino a quelle inedite: un patrimonio visivo unico, dal dopoguerra a oggi, caratterizzato dalla coerenza nelle scelte linguistiche e da un approccio “artigianale” alla pratica fotografica.
Dalla Venezia delle prime immagini alla Milano dell’industria, degli intellettuali, delle lotte operaie; dai luoghi del lavoro (i reportage realizzati per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli, e soprattutto Olivetti) a quelli della vita quotidiana; dagli ospedali psichiatrici (con Morire di classe del 1968), all’universo degli zingari; dai tanti piccoli borghi rurali alle grandi città; dall’Aquila colpita dal terremoto al MAXXI in costruzione fotografato nel 2009.
Attraverso un percorso fluido e non cronologico, la mostra offre una riflessione sui caratteri peculiari della ricerca di Berengo Gardin: la centralità dell’uomo e della sua collocazione nello spazio sociale; la natura concretamente ma anche poeticamente analogica della sua “vera” fotografia (non tagliata, non manipolata); la potenza e la specificità del suo modo di costruire la sequenza narrativa, che non lascia spazio a semplici descrizioni dello spazio ma costruisce naturalmente storie.
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