disegni e testo di Gloria Canestrini
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Arte, Cultura & Spettacoli

La cipolla di Gostanza

Questo ortaggio potente, carico di simbolismi e virtù terapeutiche è spesso accomunato alla donna

di Gloria Canestrini - “Il 3 novembre 1594, a Lari nel basso Valdarno, alla presenza di Tommaso Roffia vicario foraneo del vescovo di Lucca e di Vincenzo Viviani notaio fiorentino, vengono interrogati Benedetto Lolli da San Giminiano, mastro Pasquino ciabattino di Lari e due donne”.
Questo l'incipit del bel volume “Gostanza, la strega di San Miniato: processo a una guaritrice nella Toscana medicea”, a cura di Franco Cardini.

L'oggetto dell'interrogatorio è relativo alle testimonianze da loro rilasciate, che accusano tale monna Gostanza da Libbiano di praticare la “medicina”, somministrando vari rimedi fitoterapici ai suoi conterranei.
Ritenuta una strega sulla base delle deposizioni raccolte, Gostanza viene arrestata e sottoposta a un processo durato più di trenta giorni.

La guaritrice non ha nessuna difficoltà ad ammettere la verità, in particolare riconosce di aver alleviato e risolto in moltissime occasioni e per oltre trent'anni il travaglio delle partorienti che hanno richiesto il suo aiuto, utilizzando del brodo di pollo ben condito con cipolla, oltre a un pizzico di noce moscata per “confortare il cervello” delle puerpere.

Nega però, durante gli estenuanti interrogatori a cui è sottoposta, di aver mai pronunciato alcuna parola malefica o qualche formula magica, e così testimoniano anche i tanti compaesani, i quali dicono di averla vista all'opera con le erbe raccolte nel suo orto, dopo essere andati a prenderla, persino col cavallo, per condurla nei luoghi dove si trovavano a partorire le loro parenti.

Insomma, oggi potremmo dire che Gostanza da Libbiano era una medichessa del popolo a tutto tondo, una studiosa, un'ostetrica empirica di grande esperienza, una donna saggia.
Non fu così per i suoi inquisitori: dopo averla appesa alla fune più volte, le fecero confessare di aver operato numerosi malefici, di essersi recata ai sabba notturni, di aver cavalcato animali cornuti somiglianti a diavoli per correre più velocemente ai raduni proibiti.

Sotto tortura Gostanza arriva ad ammettere di essersi trasformata in gatto, di aver partecipato a feste nel bosco “dove i diavoli vestono bene, di tutte le sorti di colori e tutti i presenti ballano, scherzano, e fanno l'amore”. Lei era la prediletta del Diavolo Maggiore e “gli si congiungeva carnalmente sul trono” dorato da dove lui dirigeva le danze.

Il 19 novembre interviene l'inquisitore di Firenze Dionigi da Costacciaro, davanti al quale lei ammette di aver provato “più piacere con il demonio che col marito”, ma lui la contesta, asserendo che i diavoli, incorporei, non sono in grado di congiungersi carnalmente con gli esseri umani. Le contesta, però, di essersi servita di cipolle impregnate di zolfo crudo, ottenebranti delle facoltà sensitive e nemiche del raccoglimento spirituale. In particolare, i brodi preparati da Gostanza per le partorienti, anziché avvicinarle alla fede, secondo i suoi accusatori servivano allo scopo opposto, di farle cioè recedere, nel momento del travaglio e subito dopo aver dato alla luce una nuova creatura, dalla retta via. Dopo numerosi tratti di fune, Gostanza ammette di aver udito talune delle sue assistite invocare il diavolo durante le doglie, anziché Dio e la Vergine, e ciò a causa delle troppe cipolle mescolate nel brodo.

Quando il processo è ormai concluso, avviene un colpo di scena: Gostanza dichiara di essere figlia di un tal Lotto Niccolini, forse nobile fiorentino e di monna Aquiletta, sua serva.
Il 24 novembre, invitata a riconfermare le riunioni con il diavolo, nega tutto. Prosegue dichiarando di aver sostenuto il falso per paura della fune e di non essere una strega.

Il 28 novembre l'inquisitore rinuncia al processo e costringe il vicario a liberare l'imputata.
Gostanza viene ritenuta folle e le sue confessioni infondate. Ordinata la sua scarcerazione, le viene imposto di non ritornare al paese e di non praticare più la “medicina”.
Non sappiamo se Gostanza abbia trovato un altro orto in cui coltivare le sue cipolle, sappiamo però che fin dall'antichità l'Allium cepa dei botanici era considerato un vegetale violento: i sacerdoti egizi  si astenevano dal mangiarne, utilizzandolo solo per adornare i seguaci di Sokar, antico dio dei morti e di Bastet, dea infernale. In Grecia la cipolla era invece consacrata alla dea Latona, madre di Apollo e di Artemide, una delle personificazioni della Grande Madre, che l'aveva adottata perché quando era rimasta incinta le aveva stimolato l'appetito.

La cipolla è un ortaggio-rimedio di grande valore: contiene glucidi, lipidi, protidi, sali minerali, numerosi oligoelementi, zolfo, vitamine A, B, C, PP, E e flavonidi; un olio essenziale (che provoca la lacrimazione a chi la taglia) e, infine, alcune sostanze antibatteriche, sicché la si può usare come antisettico, cardiotonico, diuretico, antinfiammatorio e per curare le punture di insetti.

I pitagorici la utilizzavano, appunto, per uso esterno, ma si astenevano dal mangiarla perché, all'opposto di tutte le altre piante, cresceva quando la luna era calante ed eccitava la sensualità. Scrive Alfredo Cattabiani nel suo Florario: “Che fosse un cibo connesso alla generazione lo conferma Ateneo quando riferisce un'usanza nuziale dei Traci: Ificrate, sposando la figlia del re Cotys, ricevette fra gli altri doni nuziali una vaso pieno di neve, uno di lenticchie e un altro di cipolle”. Cita anche la credenza icasticamente espressa da Marziale:” Quando hai moglie vecchia e membro molle/non ti resta che mangiar cipolle”.

Questo ortaggio potente, carico di simbolismi oltre che di virtù terapeutiche e spesso accomunato alla donna (Niccolò Forteguerra scrisse: “La natura vi ha formate/donne mie, vaghe come le cipolle/cioè di mille scorze vi ha cerchiate/che non vien fuori quel che dentro vi bolle”) è rimasto a lungo nelle tradizioni popolari. Usata come strumento divinatorio, ad esempio, per far scoprire alle ragazze, tra i vari pretendenti, quello giusto per il matrimonio: si incideva l'iniziale del nome di ognuno sulla scorza di una cipolla e poi le si lasciava germogliare. La prima da cui sarebbe scaturito  il germoglio avrebbe indicato il marito giusto.


Autore: Gloria Canestrini

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