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Il Mahatma Gandhi, profeta della non-violenza

Come Socrate e Cristo non ha lasciato nulla di scritto

Dicono che di carattere fosse incline a perdere la pazienza e a divenire preda dell’ira. Fu su questo che lavorò per entrare nella storia come il profeta della non violenza. Predicava l’ahimsa (il rispetto pacifico di ogni vita), voleva il trionfo della satya (la verità), insegnava lo swaraj (il controllo di sé).

Mohandas Karamchand, detto Gandhi, ha consegnato al mondo una lezione bellissima: quella della non violenza . Eppure morì per mano della violenza. Fu un estremista indù a por fine alla sua vita a New Delhi. L’India perdeva il suo Bapu, il Padre della Patria. Il “Mahatma” che in sanscrito significa “grande anima”.

Nato a Pordandar 1869 e destinato a diventare un avvocato, ebbe la fortuna di crescere in una famiglia agiata della casta dei commercianti. A 13 anni era già maritato secondo gli usi indiani, pochi anni dopo già padre di quattro figli. Visse come tutti il periodo molle e del disimpegno, un dandy inglese nella Londra che lo aveva visto studente. Finchè gli scontri e le intolleranze razziali del Sud Africa dove si trovava a muovere i primi passi di una promettente carriera di avvocato, non lo portarono alla decisione di iniziare una lotta personale nella ‘sua’ India dove l’immobilità e le ingiustizie fra le varie caste, complice il regime colonialista, erano altrettanto gravi.

E così il giovane avvocato che nel paese aveva scontato sulla sua pelle molte discriminazioni, torna in India nel 1919 e comincia a predicare l’autogoverno, l’emancipazione dei paria (i fuori casta) e a proporre il boicottaggio verso gli inglesi attraverso la satyagraha.

La sua fu una battaglia veramente non violenta. Alla sua gente insegnò solo una cosa: a non essere complice, in sostanza a non-cooperare. Battaglia che è tuttora modernissima.

Allora la scelta poteva implicare l’astensione da parte degli indiani dal lavoro negli uffici pubblici, il non acquisto di manufatti di produzione inglese, il ritiro dalla scuole di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra. Il boicottaggio, insomma, ma pacifico.

Gandhi ordina ai connazionali di tessere gli abiti di lino e canapa in casa e di non acquistare quelli inglese, e il suo popolo ubbidisce. Per non pagare la tassa imposta dal governo coloniale sul sale, li chiama a raccolta e li porta al mare. E’ la famosa Marcia sul Sale che lo vede in testa a migliaia di indiani a raccogliere il prezioso minerale nelle acque dell’oceano.  Predica l’indipendenza, digiuna, subisce vari periodi di detenzione.

L’uomo, il cui nome significa ‘commerciante di verdure’ (gandhi), medita sul controllo di sé e lo attua nei famosi digiuni, soprattutto per far cessare le violenze tra musulmani e indù. Predica la non-violenza e la purificazione attraverso l’amore per il prossimo (brahmacharya).

Nel febbraio del 1947 la Gran Bretagna cede e accorda finalmente l’indipendenza alla nazione indiana. Eppure nel settembre dello stesso anno, Gandhi sta ancora digiunando: le violenze etniche non sono ancora finite e lui stesso ne sarà vittima. L’estremista che lo uccise disse di averlo fatto perché  aveva favorito i musulmani nel tentativo di riavvicinare le due comunità in lotta. Gandhi non lo avrebbe mai fatto.

Non nuocere, non mentire, non rubare, era stato il suo insegnamento. Castità e rinuncia al possesso, le sue regole. Una lezione eterna ed eternamente inascoltata che a 72 anni di distanza dalla morte non smette di affascinare. Una lezione che il villaggio globale potrebbe far propria davanti ad una macro-economia che pensa solo alla contabilità più che alla giustizia fra i popoli: dare a chi ha di meno.
Una lezione, solo una lezione purtroppo.

Grande, eterna e profondamente giusta.


Autore: Corona Perer

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