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La tragedia di Gaza

25 Ong chiedono che sia data priorità al cessate il fuoco e agli aiuti umanitari via terra

14/3/2024 - ''Israele deve rispettare la decisione della Corte internazionale di giustizia'' aveva chiesto Amnesty International nel gennaio scorso. Ma il governo Netanyau è andato avanti infischiandosene.
La decisione della Corte sulla denuncia di genocidio presentata dal Sudafrica contro Israele, rappresentava un passo significativo. La Corte aveva stabilito 6 misure provvisorie, tra cui l'obbligo per Israele di astenersi da atti contemplati dalla Convenzione sul genocidio. Ignorate. Un immediato e permanente cessate il fuoco è l’unica condizione per consentire un ingente aumento dell’afflusso di aiuti umanitari che possa alleviare la sofferenza di due milioni e 300.000 persone nella Striscia di Gaza.

Ben 25 Ong chiedono che sia data priorità al cessate il fuoco e agli aiuti umanitari via terra. Ne dà notizia Amnesty International.  ''L’unico modo per rispondere alla crisi umanitaria senza precedenti è assicurare un cessate il fuoco immediato e permanente e l’accesso via terra completo, in sicurezza e privo di ostacoli degli aiuti umanitari - si legge in una nota - Gli stati non possono trincerarsi dietro gli aiuti paracadutati e ai tentativi di aprire un corridoio marittimo per dare l’illusione che stiano facendo abbastanza per venire incontro ai bisogni della popolazione della Striscia di Gaza. La loro primaria responsabilità è quella di prevenire crimini di atrocità, avviando e applicando pressioni politiche efficaci per porre fine agli incessanti bombardamenti e alle limitazioni che impediscono la fornitura, in condizioni di sicurezza, degli aiuti umanitari.

Amnesty ricordache da mesi, nella Striscia di Gaza, ogni singola persona sta lottando contro la fame: si tratta, secondo la Classificazione integrata della sicurezza alimentare e della fase nutrizionale, della più grande proporzione di popolazione in crisi di sicurezza alimentare.

''Da mesi, le famiglie sono costrette a bere acqua insalubre e a trascorrere giorni senza mangiare. Il sistema sanitario è completamente collassato, mentre le epidemie proliferano e le persone continuano a subire gravi ferite a causa dei bombardamenti. Almeno 20 bambini sono morti per grave malnutrizione, disidratazione e malattie relative. Ogni giorno si assiste all’accelerazione della mancanza di cibo e di acqua e al peggioramento della situazione sanitaria. Se le autorità israeliane continueranno a impedire l’accesso agli aiuti umanitari, altre persone moriranno di fame e di malattie. Le Nazioni Unite hanno ammonito che la carestia si approssima.

Rispetto ai lanci di aiuti dal cielo, gli esperti del settore umanitario hanno precisato che questa modalità da sola non basta in alcun modo a venire incontro agli enormi bisogni umanitari: due milioni e 300.000 persone che vivono in condizioni estreme di sopravvivenza non possono essere alimentate dal cielo.

I lanci di aiuti via paracadute non possono fornire la quantità di aiuti che può essere trasportata via terra. Un convoglio di cinque camion può portare 100 tonnellate di assistenza salvavita mentre i lanci dal cielo possono portarne ogni volta poche tonnellate. Questa modalità è inoltre assai pericolosa per le vite dei civili in cerca di aiuti: almeno cinque persone sono morte colpite da casse di aiuti in caduta libera.

L’assistenza umanitaria non può essere improvvisata: dev’essere fornita da professionisti esperti nell’organizzazione della distribuzione e nella fornitura diretta di servizi salvavita.

La fornitura di aiuti deve avere un volto umano: non solo per valutare in modo appropriato i bisogni delle popolazioni colpite ma anche per ripristinare speranza e dignità in una popolazione già traumatizzata e disperata. Dopo cinque mesi di bombardamenti continui e di condizioni disumanizzanti, la popolazione di Gaza ha il diritto di ricevere qualcosa di più di una misera carità dal cielo.

Ogni aiuto umanitario che arriva a Gaza è benvenuto, ma quelli via cielo o via mare devono essere visti come complementari a quelli via terra e non un sostituto. È importante notare che alcuni degli stati che hanno recentemente lanciato aiuti via paracadute stanno anche fornendo armi a Israele: è il caso, in particolare, di Stati Uniti, Regno Unito e Francia.

Questi stati non possono utilizzare gli aiuti per aggirare le loro responsabilità e i loro doveri di diritto internazionale che prevedono anche la prevenzione dei crimini di atrocità. Pertanto, devono fermare tutti i trasferimenti di armi che rischiano di essere usate per compiere crimini internazionali e svolgere azioni significative perché ci sia un immediato cessate il fuoco, gli aiuti possano arrivare senza ostacoli e si assicuri che i responsabili di tali crimini siano chiamati a risponderne.

L’apertura di un corridoio marittimo da Cipro, con la conseguente costruzione di un porto galleggiante lungo la costa della Striscia di Gaza, non potranno essere in piena operatività se non tra diverse settimane. Le famiglie alla fame non possono attendere questo tempo. Per salvare le loro vite occorrono camion carichi di cibo e di medicinali, il cui ingresso a Gaza è attualmente impedito.

Inoltre, le forniture via mare verso i punti di distribuzione all’interno di Gaza andrebbero incontro agli stessi ostacoli posti oggi ai convogli terrestri via Rafah: insicurezza, alte percentuali di diniego dell’accesso da parte delle forze israeliane ed eccessive attese ai valichi israeliani.

In sintesi, la fornitura di aiuti via mare non cambierebbe la catastrofica situazione umanitaria, a meno che non fosse combinata a un immediato cessate il fuoco e all’accesso completo e privo di ostacoli degli aiuti in tutta la Striscia di Gaza. C’è poi preoccupazione circa la mancanza di trasparenza su chi sarebbe responsabile delle infrastrutture portuali e della sicurezza delle forniture via mare. Gli stati dovranno assicurare che il corridoio marittimo non finisca per legittimare una prolungata occupazione israeliana via terra.

Le 25 Ong riconoscono che ogni forma di aiuto è necessaria nell’attuale contesto drammatico ma mettono in guardia sulle conseguenze devastanti che deriverebbero da un pericoloso precedente che causerebbe la degradazione dell’accesso degli aiuti via terra e il prolungamento delle ostilità.

La risposta umanitaria all’altezza dei massicci bisogni della popolazione di Gaza è l’accesso illimitato degli aiuti e degli operatori professionali che da mesi si trovano sul lato egiziano del confine. Finora la possibilità che due milioni e 300.000 palestinesi di Gaza possano mangiare, essere curati e avere un tetto sopra la testa è alla discrezione esclusiva delle autorità israeliane. Questa situazione non può rimanere così. Le organizzazioni umanitarie hanno la capacità logistica di occuparsi della popolazione di Gaza, ciò che manca è la volontà politica degli stati di pretenderne l’ingresso.

14 marzo 2024

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I bambini del campo di Deieshshe a Betlemme

Amnesty International: si può parlare di vero e proprio apartheid

(Betlemme, Corona Perer) - I bambini del campo di Deieshshe a Betlemme vivono da profughi come i loro padri e le loro madri, e i loro nonni che dal 1948 ricordano ogni giorno che passa dalla Nabqa, l'anno della loro tragedia.

E loro, anche se piccoli, hanno imparato a loro volta dai genitori a  ricordare ogni anno quello in cui tutto fu perduto, e quello trascorso senza che nulla accadesse, e quello che verrà perchè un giorno potrebbe accadere che tutto torna. Sono più di 70 anni che i campi profughi esistono.

Quelle che un tempo erano tende sono oggi casupole nate una sull'altra dove sono dipinti i volti dei martiri e dove ogni scritta incita alla resistenza e al ritorno. La chiave è un elemento costante: we will return si legge ad ogni angolo. La si vede anche a Gerico, al'entrata del paese: we will return. Torneremo.

Nulla ha fermato la vita nei campi palestinesi: si nasce e si muore. Nulla è servito, neanche gli scioperi della fame dei 400 detenuti nelle carceri isareliane che decisero di attuare - tutti insieme -  un colossale sciopero della fame e della sete nel 2014 per richiamare l'attenzione del mondo sui campi-profughi palestinesi, creati dopo il 1948 per accogliere i rifugiati che avevano perso la loro terra a seguito della creazione dello stato di Israele.

Secondo un recente rapporto di Amnesty International si può parlare di vero e proprio apartheid.
''Le autorità israeliane usano la tecnologia di riconoscimento facciale per rafforzare l’apartheid contro i palestinesi”.  Amnesty International ha denunciato che le autorità israeliane stanno usando un sistema sperimentale di riconoscimento facciale, noto come “Red wolf”, per tracciare i palestinesi e automatizzare gravi limitazioni alla loro libertà di movimento.

Il sistema “Red wolf” fa parte di una rete sempre più ampia di sorveglianza che sta rafforzando il controllo del governo israeliano sui palestinesi e che contribuisce a mantenere il sistema israeliano di apartheid nei loro confronti. Impiegato ai posti di blocco militari nella città di Hebron, nella Cisgiordania occupata, il sistema scansiona i volti dei palestinesi aggiungendoli, senza il loro consenso, ai vasti archivi di sorveglianza.

Il rapporto di Amnesty International denuncia, inoltre, l’aumento dell’uso della tecnologia di riconoscimento facciale a Gerusalemme Est occupata, soprattutto dopo le proteste e nelle aree intorno agli insediamenti illegali.

Sia a Hebron che a Gerusalemme Est occupata, la tecnologia di riconoscimento facciale è al servizio di una fitta rete di telecamere a circuito chiuso che ha lo scopo di tenere i palestinesi sotto osservazione pressoché costantemente.

Il rapporto “Apartheid automatizzato” (datato 3 maggio 2023) spiega come questa sorveglianza faccia parte del deliberato tentativo, da parte delle autorità israeliane, di creare un clima ostile e coercitivo nei confronti dei palestinesi, allo scopo di minimizzare la loro presenza in zone considerate strategiche.

“Le autorità israeliane stanno usando sofisticati sistemi di sorveglianza per aumentare la segregazione e automatizzare l’apartheid nei confronti dei palestinesi. Nell’area H2 di Hebron, abbiamo documentato come il nuovo sistema chiamato ‘Red wolf’ stia rafforzando le già durissime limitazioni alla libertà di movimento dei palestinesi, attraverso l’acquisizione illegale di dati biometrici per monitorare e controllare i loro movimenti nella zona”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

“Gli abitanti palestinesi di Gerusalemme Est occupata e di Hebron ci hanno raccontato come le onnipresenti telecamere di sorveglianza invadano la loro riservatezza, reprimano l’attivismo, erodano la vita sociale e li facciano sentire costantemente esposti. Oltre alla sempre presente minaccia di subire forza eccessiva e arresti arbitrari, ora i palestinesi hanno a che fare anche col rischio di essere tracciati da un algoritmo o di vedersi impedito l’accesso ai loro stessi quartieri a causa di informazioni conservate negli archivi di una sorveglianza discriminatoria. Questo è l’ultimo esempio di come la tecnologia di riconoscimento facciale, quando è usata a scopo di sorveglianza, sia incompatibile coi diritti umani”, ha aggiunto Callamard.

Hebron e Gerusalemme Est sono le uniche città dei Territori palestinesi occupati che hanno al loro interno insediamenti israeliani. Con prove raccolte sul campo nel 2022, interviste ad abitanti palestinesi, analisi di materiale open-source e testimonianze di personale militare in servizio e in congedo (queste ultime fornite dall’organizzazione israeliana Breaking the Silence), Amnesty International è gunta alla conclusione che sono in funzionamento sistemi israeliani di riconoscimento facciale.

Attraverso le testimonianze del personale militare, Amnesty International ha anche documentato come la sorveglianza dei palestinesi si sia trasformata in un gioco. Ad esempio, due soldati di stanza a Hebron nel 2020 hanno detto che l’applicazione “Blue wolf” genera una classifica del numero dei palestinesi registrati e che i comandanti premiano i battaglioni che hanno raggiunto il punteggio più alto. In questo modo, i soldati israeliani vengono incentivati a tenere i palestinesi sotto costante osservazione.

Il rapporto di Amnesty International documenta come i sistemi israeliani di riconoscimento facciale basati sull’intelligenza artificiale si appoggino a una vasta infrastruttura fisica di sorveglianza hardware.

A Gerusalemme Est occupata, Israele gestisce una rete di migliaia di telecamere a circuito chiuso in tutta la Città vecchia, nota come Mabat 2000. Dal 2017, le autorità israeliane hanno aggiornato le capacità di questo sistema in termini di riconoscimento facciale ottenendo così poteri di sorveglianza senza precedenti.

Amnesty International ha mappato le telecamere a circuito chiuso presenti in un’area di 10 chilometri quadrati che comprende la Città vecchia e il quartiere di Sheikh Jarrah, individuando la presenza di una o due telecamere a circuito chiuso ogni cinque metri.

Nuovi strumenti di sorveglianza sono stati installati presso siti di rilevanza culturale e politica, come la porta di Damasco da cui si accede alla Città vecchia, storicamente luogo d’incontro e di protesta dei palestinesi.

La sorveglianza di massa viola i diritti alla privacy, all’uguaglianza e alla non discriminazione. Ha un effetto raggelante sui diritti alla libertà di espressione e di raduno pacifico, svolge un ruolo di deterrenza nei confronti delle proteste dei palestinesi ed esacerba il clima di paura e di repressione.

“Chi manifesta sa che, anche se non verrà arrestato sul posto, il suo volto sarà catturato dalle telecamere e potrà essere arrestato in seguito“, ha commentato un giornalista palestinese.

Amnesty International ha rilevato numerose telecamere installate a Gerusalemme Est occupata. Nei quartieri di Sheikh Jarrah e di Silwan, il numero delle telecamere a circuito chiuso è aumentato notevolmente a seguito delle proteste del 2021 contro gli sgomberi delle famiglie palestinesi per far posto ai colori israeliani. Non solo la sorveglianza funge da deterrente nei confronti delle proteste contro l’espansione degli insediamenti, ma le autorità e i coloni israeliani hanno anche installato ulteriori infrastrutture per la sorveglianza nei pressi degli insediamenti illegali.

Telecamere a circuito chiuso ad alta risoluzione prodotte dall’azienda cinese Hikvision sono montate su infrastrutture militari in zone abitate. Secondo i materiali promozionali dell’azienda, alcuni di questi modelli possono collegarsi a software esterni di riconoscimento facciale.

Amnesty International ha anche identificato telecamere prodotte dalla TKH Security, un’azienda dei Paesi Bassi, installate in luoghi pubblici e presso strutture di polizia così ha scritto a entrambe le aziende, circa il rischio che i loro prodotti siano usati per il riconoscimento facciale mirato dei palestinesi e dunque siano legati a violazioni dei diritti umani. Amnesty International ha chiesto informazioni sulle procedure. La TKH Security non ha replicato a un’ulteriore richiesta di chiarimenti da parte di Amnesty International. Hikvision, da parte sua, non ha risposto ad alcuna delle domande di Amnesty International.

“La Hikvision e la TKH Security devono assicurare che la loro tecnologia non sarà usata per mantenere o rafforzare ulteriormente il sistema israeliano di apartheid contro i palestinesi”, ha dichiarato Callamard.

“Queste aziende devono cessare di fornire ogni tipo di tecnologia usata dalle autorità israeliane per mantenere gli insediamenti illegali, che costituiscono un crimine di guerra ai sensi del diritto internazionale, e assicurare che venderanno i loro prodotti solo a clienti che rispettano i diritti umani”, ha concluso Callamard.

Nel 2022 Amnesty International ha diffuso un rapporto sul sistema istituzionalizzato di oppressione e dominazione di Israele nei confronti dei palestinesi, che costituisce apartheid ai sensi del diritto internazionale.

Questo sistema è imposto contro i palestinesi ovunque Israele abbia il controllo sui loro diritti ed è mantenuto da violazioni che costituiscono apartheid e dunque un crimine contro l’umanità, come definito nello Statuto di Roma e nella Convenzione sull’apartheid.

Sulla base del diritto internazionale, l’interferenza dello stato nel diritto alla privacy dev’essere palesemente necessaria e proporzionata a conseguire un obiettivo legittimo. L’uso della sorveglianza, da parte di Israele, contro i palestinesi non soddisfa tale criterio'' conclude Amnesty.

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I TRE CAMPI PROFUGHI DI BETLEMME

Quello che per Israele è il diritto ad esistere, per i Palestinesi fu il dovere di andarsene ed essere cancellati dalle loro terre. Una tragedia che chiamano Nabqa.

A Betlemme di campi ce ne sono tre. Quando Papa Francesco si recò in Palestina non potè entrarci, così fu allestita una sala con enormi gigantografie per mostrargli almeno in foto quella tragedia storica, le prime tende, la cacciata di un popolo, la loro riorganizzazione in quartieri improvvisati e privi di servizi essenziali che fanno i conti con due costanti: muri e filo spinato.

Oggi che altri nuovi campi profughi vanno ad ingrossare le fila dei disperati di guerra (si pensi al conflitto siriano e a quello yemenita) sembra ormai del tutto dimenticata la realtà di coloro i quali 74 anni fa,  prima con tende e poi con casupole cresciute l'una sull'altra sono andati a costituire una entità che rappresenta uno stato in cattività.

Lo status di profughi palestinesi è diverso da quello di tutti gli altri profughi del mondo, infatti è ereditario. Molti possono uscirne, ma restano per testimoniare con la loro presenza la questione irrisolta per gran parte del popolo palestinese, protagonista di una diaspora forzata. Altri sono nati e pure morti dentro il recinto.

 

L'Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l'Occupazione (UNRWA) provvede al sostentamento di 59 campi-profughi riconosciuti in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza. Non li amministra non avendo a sua disposizione alcuna forza di polizia e non ricoprendo alcun ruolo di tipo amministrativo,ma  provvede semplicemente a fornire di servizi essenziali il campo.

Tuttavia basta fare un giro per accorgersi che la comunità che vi vive si è organizzata in qualche modo, con poverissimi negozietti e attività artigianali: c'è il ciabattino, il barbiere, il sarto. Un mondo di povertà dentro un contesto di generale disagio sociale ed economico.
Un censimento era stato fatto nel 2012: il numero dei rifugiati palestinesi registrati è  cresciuto dalla cifra di 914.000 del 1950 a quella di oltre 5 milioni (stima 2012).

Ce ne sono in Striscia di Gaza (8 campi-profughi ufficiali, con 478.854 rifugiati); Cisgiordania (19 campi-profughi ufficiali, con 176.514 rifugiati); molti stanno sfollando dalla Siria dove prima della guerra c'erano almeno 10 campi-profughi ufficiali, con 119.776 rifugiati; in Libano il numero complessivo di rifugiati registrati è di 409.714; in Giordania esistono 10 campi-profughi ufficiali, con 304.430 rifugiati.

Abu-Khalil Laham si occupa del centro culturale del campo di Deieshshe, che è uno tra i più popolosi: 12.000 persone distribuite su 1 km. quadrato a rappresentare 46 villaggi degli oltre 416 cancellati dall'avvento dello Stato di Israele.

Da quel 1948 che per tutti resta l'anno orribile e la situazione non accenna ad avviarsi a soluzione mentre prosegue il programma delle colonie israeliane e il muro continua il suo cammino spesso con percorsi assolutamente incompresibili come quello che protegge una strada proprio nei pressi di Betlemme: un immenso e inutile fagiolone, una colata di cemento all'uscita di un tunnel che difficilmente trova una sua giustificazione logica.

Protegge infatti...dell'asfalto, ma ha sfregiato poderi che prima avevano un nome e cognome come proprietario.  Il muro chiude dentro, ma chiude anche fuori. In realtà ci sono due popoli ad essere rinchiusi.
Al Papa i rifugiati avevano inviato un messaggio forte: "Bethelehem look like Warsaw ghetto" ovvero "Betlemme assomiglia al ghetto di Varsavia".

Riuscire a comprendere come un popolo che ha provato sulla propria pelle deportazioni e odio razziale (Israele) possa ritenere ancora storicamente possibile e percorribile la strategia di "escludere" un popolo dalla faccia dalla terra, appare arduo. Ma sono 74 anni che accade e questa è la realtà della Palestina, di ogni giorno. Un arco di tempo troppo lungo che probabilmente non permetterà mai di sanare del tutto le reciproche ferite.


(Betlemme - C.Perer)

 

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