
Testimonianze da Gaza
Palestina, tragedia in diretta - La denuncia di Amnesty International
20/11/2023- Israele non si ferma nonostante l'Onu (che conta ormai poco o nulla, ma qualcosa dice), nonostante gli appelli, nonostante il mondo si stia accorgendo dalle dirette della distruzione totale. Il premier israeliano sembra ormai aver adottato la ''soluzione finale'', due parole che dovrebbero aver insegnato qualcosa alla sua storia. No. Tutto si sta replicando nonostante Hamas abbia dato disponibità a rilasciare tutti gli ostaggi: 50 proprio oggi, ma scambio rifiutato da Israele. Morte, distruzione, strage di neonati: niente ferma la macchina da guerra.
''Le forze israeliane hanno dimostrato ancora una volta un’agghiacciante indifferenza per il catastrofico numero di vittime civili dei loro incessanti bombardamenti sulla Striscia di Gaza occupata'' dichiara oggi Amnesty International, rendendo nota una nuova indagine sulle violazioni delle leggi di guerra da parte di Israele, relativa a due attacchi che hanno causato 46 vittime civili tra cui 20 bambini, il più piccolo dei quali di soli tre mesi, e una donna ottantenne. Questi due episodi devono essere indagati come crimini di guerra.
Cosa dice il diritto internazionale umanitario? Le parti coinvolte in un conflitto armato devono sempre distinguere tra civili e obiettivi civili da un lato e combattenti e obiettivi militari dall’altro. Gli attacchi diretti contro i civili e gli obiettivi civili sono vietati in quanto attacchi indiscriminati.
Quando attacca un obiettivo militare, Israele è obbligato ad adottare tutte le precauzioni possibili per evitare, o comunque minimizzare, morti e feriti tra i civili e danni agli obiettivi civili. Esempi di precauzioni sono: fare tutto il possibile per verificare che il bersaglio sia un obiettivo militare; scegliere forme e metodi di attacco che riducano al minimo i danni ai civili; valutare se un attacco potrebbe essere sproporzionato; dare un preavviso efficace, ove possibile; annullare un attacco qualora dovesse palesarsi come illegale.
Amnesty International non ha trovato alcuna indicazione che vi fossero obiettivi militari negli edifici colpiti dai due attacchi o che le persone al loro interno fossero obiettivi militari. Ciò fa temere che i due attacchi siano stati diretti contro civili od obiettivi civili.
Gli attacchi, avvenuti il 19 e il 20 ottobre, hanno colpito un edificio appartenente al complesso di una chiesa di Gaza City dove si erano rifugiati centinaia di sfollati e un’abitazione nel campo rifugiati di al-Nuseirat, al centro della Striscia di Gaza.
Sulla base delle sue approfondite ricerche, Amnesty International ha concluso che si è trattato di attacchi indiscriminati o di attacchi diretti contro civili e obiettivi civili, che devono essere indagati come crimini di guerra.
“Questi attacchi mortali e illegali fanno parte di un documentato schema di disprezzo per i civili palestinesi e dimostrano il devastante impatto dell’assalto senza precedenti da parte di Israele, che ha fatto sì che nessun luogo di Gaza sia sicuro, indipendentemente da dove i civili vivano o dove cerchino rifugio”, ha dichiarato Erika Guevara-Rosas, direttrice delle ricerche globali di Amnesty International. “Sollecitiamo il procuratore della Corte penale internazionale ad assumere immediate e concrete iniziative per velocizzare l’indagine, aperta nel 2021, sui crimini di guerra e su altri crimini di diritto internazionale”.
“Le drammatiche testimonianze dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime sul devastante costo umano di questi bombardamenti sono un’istantanea della sofferenza di massa inflitta quotidianamente ai civili di tutta la Striscia di Gaza dagli incessanti attacchi israeliani ed evidenziano l’urgente bisogno di un immediato cessate il fuoco”, aggiunge Guevara-Rosas.
Amnesty International ha visitato i luoghi degli attacchi, ha scattato fotografie sulle conseguenze del loro impatto e ha intervistato 14 persone: nove sopravvissuti, altri due testimoni, un familiare di alcune vittime e due capi religiosi. Il Crisis Evidence Lab di Amnesty International ha esaminato immagini satellitari e materiale audiovisivo open-source per geolocalizzare e verificare gli attacchi.
L’organizzazione per i diritti umani ha anche esaminato dichiarazioni delle forze armate israeliane e, il 30 ottobre, ha inviato delle domande al loro portavoce. Finora, Amnesty International non ha ricevuto alcuna risposta. Le autorità israeliane non hanno reso nota alcuna credibile prova a sostegno dei due attacchi, come ad esempio la presunta presenza di obiettivi militari. Al contrario, nel caso del bombardamento dell’edificio appartenente alla chiesa, l’esercito israeliano ha pubblicato informazioni contraddittorie, tra le quali un video, successivamente rimosso, e una dichiarazione non circostanziata. Dalle ricerche di Amnesty International non è emersa alcuna indicazione che i due luoghi colpiti potessero essere considerati obiettivi militari o fossero usati da combattenti.
Gli attuali bombardamenti sono senza precedenti per l’intensità, per il numero di civili uccisi e per il livello di distruzione di abitazioni, scuole, ospedali e altre infrastrutture civili. “Avevamo documentato già in passato lo spietato disprezzo delle forze israeliane per il diritto internazionale umanitario, ma l’intensità e la crudeltà degli attuali bombardamenti sono senza precedenti”, ha commentato Guevara-Rosas. “Il terribile numero delle vittime palestinesi, oltre 11.000 tra cui più di 4600 bambini, in sole sei settimane, la dice lunga su come le forze israeliane, che ordinano ed eseguono attacchi del genere, considerino sacrificabili le vite dei palestinesi”, ha proseguito Guevara-Rosas.
Il 19 ottobre un attacco aereo israeliano ha distrutto un edificio del complesso della chiesa greco-ortodossa di san Porfirio, al centro di Gaza City, dove si erano rifugiati circa 450 sfollati appartenenti alla piccola comunità cristiana locale. L’attacco ha ucciso 18 civili e ne ha feriti almeno altri 12.
“Quella sera il mio cuore è morto insieme ai miei figli. Sono stati uccisi tutti: Majid di 11 anni, Julie di 12 anni e Suhail di 14 anni. Non mi è rimasto niente. Sarei dovuto morire coi miei figli” è la testimonianza di Ramez al-Sury, che nell’attacco ha perso tre figli e altri dieci familiari. Li avevo lasciati solo due minuti prima, perché mia sorella mi aveva chiesto di scendere al piano terra per assistere mio padre, che è allettato da quando ha avuto un infarto. I miei figli sono rimasti nella loro stanza coi miei cugini, le loro mogli e i loro figli. In quel momento è arrivato l’attacco e li ha uccisi tutti”.
“Avevamo lasciato le nostre case ed eravamo andati alla chiesa perché pensavamo che così saremmo stati protetti. La chiesa era piena di persone pacifiche. Non c’è alcun luogo sicuro a Gaza in questa guerra. Ci sono bombardamenti ovunque, giorno e notte. Ogni giorno, muoiono altri bambini. Preghiamo per la pace, ma i nostri cuori sono a pezzi”.
Sami Tarazi ha raccontato ad Amnesty International che i suoi genitori, Marwan e Nahed, sono stati uccisi nello stesso attacco, insieme a una nipote di sei mesi, Joelle, e a un’anziana parente, Elaine, di 80 anni.
Uno dei capi della chiesa ha dichiarato: “Non sappiamo perché abbiano bombardato la nostra chiesa. Nessuno ci ha dato spiegazioni su questa tragedia. Questa è una chiesa, un luogo di pace, di amore e di preghiera. Al momento, non c’è alcun luogo sicuro a Gaza”.
Il 20 ottobre l’esercito israeliano ha diffuso sulle piattaforme social un video con riprese fatte da un drone, esaminato poi da Amnesty International, in cui si vede un attacco contro l’edificio appartenente al complesso della chiesa. Vari organi di stampa hanno riportato una dichiarazione dell’esercito israeliano secondo la quale “i jet delle Idf [le Forze di difesa israeliane] hanno colpito il comando e il centro di controllo di un terrorista di Hamas coinvolto nel lancio di razzi e mortai contro Israele”, ammettendo che “un muro della chiesa è stato danneggiato” e che “si sta riesaminando l’episodio”.
Il video è stato successivamente rimosso e né l’esercito né le autorità israeliane hanno fornito informazioni a sostegno della precedente dichiarazione, secondo la quale l’edificio della chiesa era un “comando e centro di controllo” di Hamas. Non sono state fornite informazioni neanche sul riesame dell’episodio.
Il Crisis Evidence Lab di Amnesty International ha esaminato, verificato e geolocalizzato video e immagini pubblicate sulle piattaforme social subito dopo l’attacco e ha analizzato immagini satellitari riferite a prima e dopo l’attacco, riscontrando conferme sulla distruzione completa di un edificio e su quella parziale di un altro edificio appartenenti alla chiesa.
Gli esperti di armi di Amnesty International hanno a loro volta esaminato il video dell’esercito israeliano e altre immagini per concludere che una potente munizione aerea ha direttamente colpito l’edificio dove si erano rifugiate persone poi morte e ferite.
I responsabili del sito religioso hanno dichiarato che, prima dell’attacco, vi avevano trovato riparo centinaia di sfollati; dunque, la loro presenza avrebbe dovuto essere nota all’esercito israeliano. La decisione di quest’ultimo di portare a termine l’attacco contro un noto edificio religioso che ospitava civili sfollati è stata sconsiderata e dunque equiparabile a un crimine di guerra, anche nel caso in cui si fosse ritenuto che nelle vicinanze c’era un obiettivo militare.
Alle 14 del 20 ottobre, un attacco israeliano ha colpito la casa della famiglia al-Aydi nel campo rifugiati di al-Nuseirat, al centro della Striscia di Gaza, uccidendo 28 civili, tra i quali 12 bambini. Il campo era nella zona dove le autorità israeliane avevano ordinato alla popolazione del nord della Striscia di Gaza di trasferirsi.
Rami al-Aydi, sua moglie Ranin e i loro tre figli – Ghina di dieci anni, Maya di otto anni e Iyad di sei anni – sono stati uccisi, così come Zeina Abu Shehada e i suoi due figli – Amir al-Aydi di quattro anni e Rakan al-Aydi di sei anni – e le due sorelle e la madre di Zeina.
“Eravamo in casa, era piena di gente, di bambini e parenti. Improvvisamente, senza alcun preavviso, è crollato tutto. Sono morti tutti i miei fratelli, i miei nipoti, le mie nipoti. È morta mia madre, sono morte le mie sorelle, la nostra casa non c’è più. Non è rimasto niente, ora siamo sfollati. Che altro potrà succedere di peggio?” sono le parole di Hani al-Aydi, sopravvissuta all’attacco
Nell’attacco, Hazem Abu Shehada ha perso la moglie e tre figlie. Erano arrivati al campo rifugiati di al-Nuseirat da quello vicino di al-Maghazi, in cerca di riparo:
“Avrò i sensi di colpa per il resto della mia vita. Ero stato io a suggerire di spostarci provvisoriamente ad al-Nuseirat. Vorrei non averlo mai fatto, vorrei che l’orologio tornasse indietro, vorrei che fossimo morti tutti quanti invece di aver perso la mia famiglia”.
L’attacco ha anche causato gravi danni e la quasi totale distruzione delle case dei vicini, le famiglie al-Ashram e Abu Zarqa. Nell’abitazione degli Abu Zarqa sono morte sei persone, tra le quali quattro bambini: le sorelle Sondos e Areej, di 12 e 11 anni, e i loro cugini Yara e Khamis Abu Tahoum, di 10 e 12 anni.
Le ricerche di Amnesty International hanno evidenziato che tutte le persone presenti nell’abitazione della famiglia al-Aydi e nelle altre due erano civili. Due membri della famiglia al-Aydi avevano il permesso di lavorare in Israele, che viene concesso dopo rigorosi controlli di sicurezza su chi chiede il permesso e sulla sua famiglia allargata.
Le immagini satellitari del luogo dell’attacco alle 11:19 del 20 ottobre e alle 8:22 del 21 ottobre hanno confermato le distruzioni, compatibili con le conseguenze di un attacco aereo. L’area e molte delle strutture circostanti appaiono significativamente danneggiate.
Le prove raccolte da Amnesty International indicano che l’esercito israeliano non ha preso tutte le possibili precauzioni per ridurre al minimo i danni ai civili e ai beni civili: ad esempio, non ha dato alcun preavviso, almeno a coloro che vivevano negli edifici colpiti, prima di lanciare gli attacchi.
Gli attacchi indiscriminati che uccidono o feriscono civili costituiscono crimini di guerra. Amnesty International ha documentato attacchi del genere da parte di Israele nelle operazioni militari contro la Striscia di Gaza del 2008-9, del 2014 e del 2021: attacchi contro civili e obiettivi civili che, a loro volta, possono costituire crimini di guerra.
L’estremamente alta densità abitativa della Striscia di Gaza pone ulteriori oneri a tutte le parti in conflitto. Ai sensi del diritto internazionale umanitario, Hamas e gli altri gruppi armati palestinesi devono prendere tutte le precauzioni possibili per proteggere i civili dalle conseguenze degli attacchi israeliani: ad esempio, evitando al massimo di collocare obiettivi militari all’interno o nei pressi di zone densamente abitate.
Ma anche se i gruppi armati palestinesi venissero meno a tali obblighi, Israele rimarrebbe vincolato al diritto internazionale umanitario che vieta attacchi indiscriminati e sproporzionati.
Amnesty International sta chiedendo un immediato cessate il fuoco a tutte le parti in conflitto per evitare ulteriori perdite di vite umane e assicurare l’arrivo degli aiuti umanitari alla popolazione di Gaza, alle prese con una catastrofe umanitaria senza precedenti. Amnesty International ha documentato schiaccianti prove di crimini di guerra commessi dalle forze israeliane nell’offensiva contro la Striscia di Gaza, tra i quali ulteriori attacchi indiscriminati che hanno causato uccisioni di massa di civili palestinesi, hanno spazzato via intere famiglie e distrutto aree residenziali.
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I bambini del campo di Deieshshe a Betlemme
Amnesty International: si può parlare di vero e proprio apartheid
(Corona Perer) - I bambini del campo di Deieshshe a Betlemme vivono da profughi come i loro padri e le loro madri, e i loro nonni che dal 1948 ricordano ogni giorno che passa dalla Nabqa, l'anno della loro tragedia.
E loro, anche se piccoli, hanno imparato a loro volta dai genitori a ricordare ogni anno quello in cui tutto fu perduto, e quello trascorso senza che nulla accadesse, e quello che verrà perchè un giorno potrebbe accadere che tutto torna. Sono più di 70 anni che i campi profughi esistono.
Quelle che un tempo erano tende sono oggi casupole nate una sull'altra dove sono dipinti i volti dei martiri e dove ogni scritta incita alla resistenza e al ritorno. La chiave è un elemento costante: we will return si legge ad ogni angolo. La si vede anche a Gerico, al'entrata del paese: we will return. Torneremo.
Nulla ha fermato la vita nei campi palestinesi: si nasce e si muore. Nulla è servito, neanche gli scioperi della fame dei 400 detenuti nelle carceri isareliane che decisero di attuare - tutti insieme - un colossale sciopero della fame e della sete nel 2014 per richiamare l'attenzione del mondo sui campi-profughi palestinesi, creati dopo il 1948 per accogliere i rifugiati che avevano perso la loro terra a seguito della creazione dello stato di Israele.
Secondo un recente rapporto di Amnesty International si può parlare di vero e proprio apartheid.
''Le autorità israeliane usano la tecnologia di riconoscimento facciale per rafforzare l’apartheid contro i palestinesi”. Amnesty International ha denunciato che le autorità israeliane stanno usando un sistema sperimentale di riconoscimento facciale, noto come “Red wolf”, per tracciare i palestinesi e automatizzare gravi limitazioni alla loro libertà di movimento.
Il sistema “Red wolf” fa parte di una rete sempre più ampia di sorveglianza che sta rafforzando il controllo del governo israeliano sui palestinesi e che contribuisce a mantenere il sistema israeliano di apartheid nei loro confronti. Impiegato ai posti di blocco militari nella città di Hebron, nella Cisgiordania occupata, il sistema scansiona i volti dei palestinesi aggiungendoli, senza il loro consenso, ai vasti archivi di sorveglianza.
Il rapporto di Amnesty International denuncia, inoltre, l’aumento dell’uso della tecnologia di riconoscimento facciale a Gerusalemme Est occupata, soprattutto dopo le proteste e nelle aree intorno agli insediamenti illegali.
Sia a Hebron che a Gerusalemme Est occupata, la tecnologia di riconoscimento facciale è al servizio di una fitta rete di telecamere a circuito chiuso che ha lo scopo di tenere i palestinesi sotto osservazione pressoché costantemente.
Il rapporto “Apartheid automatizzato” (datato 3 maggio 2023) spiega come questa sorveglianza faccia parte del deliberato tentativo, da parte delle autorità israeliane, di creare un clima ostile e coercitivo nei confronti dei palestinesi, allo scopo di minimizzare la loro presenza in zone considerate strategiche.
“Le autorità israeliane stanno usando sofisticati sistemi di sorveglianza per aumentare la segregazione e automatizzare l’apartheid nei confronti dei palestinesi. Nell’area H2 di Hebron, abbiamo documentato come il nuovo sistema chiamato ‘Red wolf’ stia rafforzando le già durissime limitazioni alla libertà di movimento dei palestinesi, attraverso l’acquisizione illegale di dati biometrici per monitorare e controllare i loro movimenti nella zona”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.
“Gli abitanti palestinesi di Gerusalemme Est occupata e di Hebron ci hanno raccontato come le onnipresenti telecamere di sorveglianza invadano la loro riservatezza, reprimano l’attivismo, erodano la vita sociale e li facciano sentire costantemente esposti. Oltre alla sempre presente minaccia di subire forza eccessiva e arresti arbitrari, ora i palestinesi hanno a che fare anche col rischio di essere tracciati da un algoritmo o di vedersi impedito l’accesso ai loro stessi quartieri a causa di informazioni conservate negli archivi di una sorveglianza discriminatoria. Questo è l’ultimo esempio di come la tecnologia di riconoscimento facciale, quando è usata a scopo di sorveglianza, sia incompatibile coi diritti umani”, ha aggiunto Callamard.
Hebron e Gerusalemme Est sono le uniche città dei Territori palestinesi occupati che hanno al loro interno insediamenti israeliani. Con prove raccolte sul campo nel 2022, interviste ad abitanti palestinesi, analisi di materiale open-source e testimonianze di personale militare in servizio e in congedo (queste ultime fornite dall’organizzazione israeliana Breaking the Silence), Amnesty International è gunta alla conclusione che sono in funzionamento sistemi israeliani di riconoscimento facciale.
Attraverso le testimonianze del personale militare, Amnesty International ha anche documentato come la sorveglianza dei palestinesi si sia trasformata in un gioco. Ad esempio, due soldati di stanza a Hebron nel 2020 hanno detto che l’applicazione “Blue wolf” genera una classifica del numero dei palestinesi registrati e che i comandanti premiano i battaglioni che hanno raggiunto il punteggio più alto. In questo modo, i soldati israeliani vengono incentivati a tenere i palestinesi sotto costante osservazione.
Il rapporto di Amnesty International documenta come i sistemi israeliani di riconoscimento facciale basati sull’intelligenza artificiale si appoggino a una vasta infrastruttura fisica di sorveglianza hardware.
A Gerusalemme Est occupata, Israele gestisce una rete di migliaia di telecamere a circuito chiuso in tutta la Città vecchia, nota come Mabat 2000. Dal 2017, le autorità israeliane hanno aggiornato le capacità di questo sistema in termini di riconoscimento facciale ottenendo così poteri di sorveglianza senza precedenti.
Amnesty International ha mappato le telecamere a circuito chiuso presenti in un’area di 10 chilometri quadrati che comprende la Città vecchia e il quartiere di Sheikh Jarrah, individuando la presenza di una o due telecamere a circuito chiuso ogni cinque metri.
Nuovi strumenti di sorveglianza sono stati installati presso siti di rilevanza culturale e politica, come la porta di Damasco da cui si accede alla Città vecchia, storicamente luogo d’incontro e di protesta dei palestinesi.
La sorveglianza di massa viola i diritti alla privacy, all’uguaglianza e alla non discriminazione. Ha un effetto raggelante sui diritti alla libertà di espressione e di raduno pacifico, svolge un ruolo di deterrenza nei confronti delle proteste dei palestinesi ed esacerba il clima di paura e di repressione.
“Chi manifesta sa che, anche se non verrà arrestato sul posto, il suo volto sarà catturato dalle telecamere e potrà essere arrestato in seguito“, ha commentato un giornalista palestinese.
Amnesty International ha rilevato numerose telecamere installate a Gerusalemme Est occupata. Nei quartieri di Sheikh Jarrah e di Silwan, il numero delle telecamere a circuito chiuso è aumentato notevolmente a seguito delle proteste del 2021 contro gli sgomberi delle famiglie palestinesi per far posto ai colori israeliani. Non solo la sorveglianza funge da deterrente nei confronti delle proteste contro l’espansione degli insediamenti, ma le autorità e i coloni israeliani hanno anche installato ulteriori infrastrutture per la sorveglianza nei pressi degli insediamenti illegali.
Telecamere a circuito chiuso ad alta risoluzione prodotte dall’azienda cinese Hikvision sono montate su infrastrutture militari in zone abitate. Secondo i materiali promozionali dell’azienda, alcuni di questi modelli possono collegarsi a software esterni di riconoscimento facciale.
Amnesty International ha anche identificato telecamere prodotte dalla TKH Security, un’azienda dei Paesi Bassi, installate in luoghi pubblici e presso strutture di polizia così ha scritto a entrambe le aziende, circa il rischio che i loro prodotti siano usati per il riconoscimento facciale mirato dei palestinesi e dunque siano legati a violazioni dei diritti umani. Amnesty International ha chiesto informazioni sulle procedure. La TKH Security non ha replicato a un’ulteriore richiesta di chiarimenti da parte di Amnesty International. Hikvision, da parte sua, non ha risposto ad alcuna delle domande di Amnesty International.
“La Hikvision e la TKH Security devono assicurare che la loro tecnologia non sarà usata per mantenere o rafforzare ulteriormente il sistema israeliano di apartheid contro i palestinesi”, ha dichiarato Callamard.
“Queste aziende devono cessare di fornire ogni tipo di tecnologia usata dalle autorità israeliane per mantenere gli insediamenti illegali, che costituiscono un crimine di guerra ai sensi del diritto internazionale, e assicurare che venderanno i loro prodotti solo a clienti che rispettano i diritti umani”, ha concluso Callamard.
Nel 2022 Amnesty International ha diffuso un rapporto sul sistema istituzionalizzato di oppressione e dominazione di Israele nei confronti dei palestinesi, che costituisce apartheid ai sensi del diritto internazionale.
Questo sistema è imposto contro i palestinesi ovunque Israele abbia il controllo sui loro diritti ed è mantenuto da violazioni che costituiscono apartheid e dunque un crimine contro l’umanità, come definito nello Statuto di Roma e nella Convenzione sull’apartheid.
Sulla base del diritto internazionale, l’interferenza dello stato nel diritto alla privacy dev’essere palesemente necessaria e proporzionata a conseguire un obiettivo legittimo. L’uso della sorveglianza, da parte di Israele, contro i palestinesi non soddisfa tale criterio'' conclude Amnesty.
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I TRE CAMPI PROFUGHI DI BETLEMME
Quello che per Israele è il diritto ad esistere, per i Palestinesi fu il dovere di andarsene ed essere cancellati dalle loro terre. Una tragedia che chiamano Nabqa.
A Betlemme di campi ce ne sono tre. Quando Papa Francesco si recò in Palestina non potè entrarci, così fu allestita una sala con enormi gigantografie per mostrargli almeno in foto quella tragedia storica, le prime tende, la cacciata di un popolo, la loro riorganizzazione in quartieri improvvisati e privi di servizi essenziali che fanno i conti con due costanti: muri e filo spinato.
Oggi che altri nuovi campi profughi vanno ad ingrossare le fila dei disperati di guerra (si pensi al conflitto siriano e a quello yemenita) sembra ormai del tutto dimenticata la realtà di coloro i quali 74 anni fa, prima con tende e poi con casupole cresciute l'una sull'altra sono andati a costituire una entità che rappresenta uno stato in cattività.
Lo status di profughi palestinesi è diverso da quello di tutti gli altri profughi del mondo, infatti è ereditario. Molti possono uscirne, ma restano per testimoniare con la loro presenza la questione irrisolta per gran parte del popolo palestinese, protagonista di una diaspora forzata. Altri sono nati e pure morti dentro il recinto.
L'Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l'Occupazione (UNRWA) provvede al sostentamento di 59 campi-profughi riconosciuti in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza. Non li amministra non avendo a sua disposizione alcuna forza di polizia e non ricoprendo alcun ruolo di tipo amministrativo,ma provvede semplicemente a fornire di servizi essenziali il campo.
Tuttavia basta fare un giro per accorgersi che la comunità che vi vive si è organizzata in qualche modo, con poverissimi negozietti e attività artigianali: c'è il ciabattino, il barbiere, il sarto. Un mondo di povertà dentro un contesto di generale disagio sociale ed economico.
Un censimento era stato fatto nel 2012: il numero dei rifugiati palestinesi registrati è cresciuto dalla cifra di 914.000 del 1950 a quella di oltre 5 milioni (stima 2012).
Ce ne sono in Striscia di Gaza (8 campi-profughi ufficiali, con 478.854 rifugiati); Cisgiordania (19 campi-profughi ufficiali, con 176.514 rifugiati); molti stanno sfollando dalla Siria dove prima della guerra c'erano almeno 10 campi-profughi ufficiali, con 119.776 rifugiati; in Libano il numero complessivo di rifugiati registrati è di 409.714; in Giordania esistono 10 campi-profughi ufficiali, con 304.430 rifugiati.
Abu-Khalil Laham si occupa del centro culturale del campo di Deieshshe, che è uno tra i più popolosi: 12.000 persone distribuite su 1 km. quadrato a rappresentare 46 villaggi degli oltre 416 cancellati dall'avvento dello Stato di Israele.
Da quel 1948 che per tutti resta l'anno orribile e la situazione non accenna ad avviarsi a soluzione mentre prosegue il programma delle colonie israeliane e il muro continua il suo cammino spesso con percorsi assolutamente incompresibili come quello che protegge una strada proprio nei pressi di Betlemme: un immenso e inutile fagiolone, una colata di cemento all'uscita di un tunnel che difficilmente trova una sua giustificazione logica.
Protegge infatti...dell'asfalto, ma ha sfregiato poderi che prima avevano un nome e cognome come proprietario. Il muro chiude dentro, ma chiude anche fuori. In realtà ci sono due popoli ad essere rinchiusi.
Al Papa i rifugiati avevano inviato un messaggio forte: "Bethelehem look like Warsaw ghetto" ovvero "Betlemme assomiglia al ghetto di Varsavia".
Riuscire a comprendere come un popolo che ha provato sulla propria pelle deportazioni e odio razziale (Israele) possa ritenere ancora storicamente possibile e percorribile la strategia di "escludere" un popolo dalla faccia dalla terra, appare arduo. Ma sono 74 anni che accade e questa è la realtà della Palestina, di ogni giorno. Un arco di tempo troppo lungo che probabilmente non permetterà mai di sanare del tutto le reciproche ferite.
(Betlemme - C.Perer)
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