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Shoah: la triste vicenda dei Kapò

L'uomo non impara dalla storia - Aleksandar Tišma e l'orrore quotidiano nei campi di concentramento

La triste vicenda dei Kapò durante la Shoah ci dice che l'essere umano è disposto a tutto pur di vivere (o sopravvivere) e può giungere a tremende aberrazioni vestite di quotidianità come diventare l'aguzzino dei suoi stessi compagni e compiere l'orrore quotidiano. Già nella “Banalità del male” di Hannah Arendt emerge la straordinaria (e sconvolgente) normalità che portò all’orrore della Shoah.

Abbiamo poi visto in tempi recenti come un popolo vittima di olocausto sia diventato autore di un vero e proprio genocidio. Quanto accaduto nella Striscia di Gaza, distrutta da Israele in questi due dolorosissimi anni è la dimostrazione plastica che l'uomo non impara dalla storia. E non può certo bastare la motivazione di Hamas e del 7 ottobre 2023. L'odio si coltiva con l'odio, i palestinesi sono indubbiamente vittime di un massacro che avviene sotto gli occhi del mondo. E che grida vendetta a Dio anche negli occhi dei veri sopravvissuti all'olocausto come Stephen Kapos (da ascoltare!).

Ma torniamo alla narrativa sul Male durante la persecuzione dei nazisti tedeschi. In “Kapò” scritto da Aleksandar Tišma  si legge la routine del lavoro quotidiano nel campo di sterminio attraverso la storia di un sopravvissuto che vive da grigio impiegato di provincia solitario e ritirato, assediato da colpe che ritornano attraverso un’ombra. Il suo incubo ricorrente è una figura che non dà tregua: Helena Lifka, prigioniera ebrea su cui più volte aveva esercitato il suo potere di aguzzino e che, unica tra tutte le sue vittime, è riuscita a salvarsi.

Di padre serbo e di madre ebrea ungherese, Tišma riuscì a sfuggire alla deportazione degli ebrei di Novi Sad, la città in Vojvodina dove crebbe - e dove è ambientata la maggior parte dei suoi romanzi e racconti - rifugiandosi a Budapest, dove ebbe modo di studiare economia e letteratura francese, prima di essere trasferito in un campo di lavoro in Ungheria e di aderire poi al movimento di liberazione jugoslavo.

In “Kapò” descrive un’identità perennemente in bilico: un ebreo che ripudia la propria ebraicità, un aguzzino che accetta e al tempo stesso rifiuta la propria responsabilità, un uomo dilaniato dalle ossessioni del passato che tenta il suicidio e disperatamente si aggrappa alla vita e all’unico fine che la giustifica, vale a dire l’incontro con la sua ex vittima. Per questo il protagonista compie un duplice viaggio a ritroso: all’interno del proprio sé, della propria coscienza - attraverso frammenti di passato che tornano ossessivamente alla memoria - e un viaggio nella ex Jugoslavia alla ricerca della propria vittima sacrificale, nella convinzione che solo lei potrà giudicarlo e magari assolverlo.  

Il libro di Tišma fu consegnato alle stampe nel 1988 cinque anni prima di morire (nel 2002 a ottant’anni), ma in Italia era opera sconosciuta nonostante lo scrittore sia stato uno dei più celebri e apprezzati della ex Jugoslavia, tradotto in una ventina di lingue, amato sia dal pubblico sia dalla critica.

Per fare memoria, si dice di solito. Ma la memoria dell'uomo è corta
 


Autore: Corona Perer

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